Una venticinquina d’anni fa i cani randagi di queste contrade avevano trovato una madre premurosa ed amorosa nella celebre scrittrice Luisa de La Ramée (1839-1908): rebbiati dal bastone nodoso del macellaio arcigno, quando di soppiatto addentavano un rocchio di ciccia sotto il banco, granatati, sul capo, dalla massaia quando li sorprendeva a rufolare sotto l’acquaio, martellati dal fabbro ferraio quando trafficavano intorno alla striscia di lardo ch’era la sua colazione, impallinati dai contadini appena facevano apparizione sull’aia dove si macellava il porco, minacciati su tutti i crociali delle vie maestre dalla lacciaia degli accalappiacani, i cani randagi, di paese in paese, finivano al mare.
Vicino al mare s’era stabilita «la mamma dei cani» in una casa mezzo smobiliata che esalava il tanfo del canile. La povera «Ouida» negli ultimi anni desolati della sua vita, come coloro che hanno masticato l’oppio, sognava sveglia e, come tra veglia e sogno, se ne andava lungo la battima del mare con una sturma di cani di tutte le razze, arrembati, troncolati, incimurriti; i più tribolati erano presi in collo e alimentati con biscottini. Una serva alta e membruta dai capelli rossi sagginati, maculata di semola nel viso potente, mostrando i pugni chiusi come nodi di quercia ai ragazzi randagi li minacciava con una voce da orco: – Se ci noiate, di voi ne faccio tonnina! – La celebre scrittrice indebolita di cuore e di mente, diseredata come una mendica, s’era congregata con questa donna rissosa e manesca che le fu fedele per tutta la vita. Nel paese a questa donna ombrosa le dicevano, per soprannome, «La cervelli», ma a cagione del testone enorme e dei discorsi ch’ella faceva dopo essersi asservita alla «Ouida» si tramutò in «Sette cervelli». La «Sette cervelli» portava al pizzicagnolo dirimpetto a casa certi libri rifoderati di pergamene con delle piccole stole d’oro per segnapagina e insieme li aprivano sul banco: – Cosa ci dirà in tutto questo «pippiume»? – (i libri erano scritti in inglese) e molti finivano infilzati nel ferro in cui si stiva la carta da involgere.- Sovente alla casa della scrittrice bussavano circospetti uomini che avevano del monatto e dell’aguzzino intonacati in una cappa d’incerato nero con gli scarponi rinceppati d’ontano e un berretto basco sul capo: erano gli accalappiacani, i quali, prima di somministrare la polpetta avvelenata al cane che il giorno innanzi avevano preso alla lacciata, venivano ad offrirlo per un quartuccio di vino alla mamma dei cani. Nella casa della scrittrice c’era una tal cananea da mettere in rivoluzione un vicinato, un guattire, un uggiolare, un abbaiare continuo a cui si aggiungevano i ruggiti della serva quando qualcuno del vicinato, facendosi sull’uscio, proferiva improperi contro «la mamma dei cani». Una mattina «la mamma dei cani» fu trovata morta nel suo lettuccio e intorno al letto c’era l’uggiolìo di tutta la sturma dei cani; qualcuno si era accucciato ai piedi sì come sogliono essere scolpiti i cani nei sarcofaghi, a simbolo di fedeltà. – È morta «la mamma dei cani». Sentite che abbaio? – È morta la mia padrona, – disse sconsolata la serva, affacciandosi tutta scarduffata, al pizzicagnolo che dava leva alla saracinesca: – Tu vedessi quanti libri. Io son l’erede universale. Domani la trasportano ai Bagni di Lucca per interrarla nel camposanto degli Inglesi e le ci fanno anche la statua. Il dimani due cavalli che sembravano di legno, covertati di nero, con soltanto fuori gli orecchi, tenuti su dalle guide rette da un cavallaio camuffato a necroforo, tuba nera con la coccarda gialla, una giubba verde bottiglia lunga, coi bottoni d’argentone, i guanti bianchi, aspettavano fuori l’uscio della scrittrice. Il carro simile a un serbatoio d’acqua impeciato aveva la schiudenda spalancata e il teschio scolpito rimaneva tra l’usciolo e la pedana. Qualche vecchio signore vestito color malva, con dei gilè ricamati di foglie di salvia, e dei goletti inamidati, tanto alti che parevano avere svitato il collo, dal viso rosso volitivo, baffi e capelli bianco-rosseggianti come le barbe del granturco, e gli occhi di vetro, dritto come palo, tamburellava nell’attesa il pietrato con la mazza di malacca; e v’era anche qualche signora combusta scarnita, dal secco profilo di prete copto, con i capelli bianchi retati di nero e certe vestaglie che parevano bruciate e incenerite. Quando la cassa fu varata nel carro le donne, che di sul marciapiede osservavano la scena, dissero peritanti: – Era protestante, la portano lontano di qui.- La serva massiccia, dipanata tutta in tulle nero, quando il carro si mosse si mise subito dopo la chiudenda. […] Il capo della scrittrice è alto su due guanciali e dal filo del muricciolo potrebbe vedere i freddi botri vocali della imminente Lima e gli scheggioni soprammessi del suo letto scabro. [1]
II 25 gennaio 1908 si spegneva a Viareggio, nella Pensione Puccini, praticamente ignorata dai più, la scrittrice inglese Marie-Louise de la Ramee, più nota con lo pseudonimo di Ouida, famosa soprattutto per i suoi romanzi, ma anche per l’amore sviscerato che essa ebbe per i cani. Donna molto colta visse fra Firenze, Bagni di Lucca e Viareggio. Verso il 1868 si stabilì a Firenze con la madre ed aprì un salotto letterario, che divenne, in breve, assiduo luogo d’incontro di personaggi molto in vista della cultura e della politica. Ouida sapeva intrattenere gli ospiti, con molta affabilità ed equilibrio, conversando su ogni possibile argomento. Brillante, affascinante fu anche bizzarra, anticonformista e molto chiacchierata per le numerose avventure sentimentali. I suoi numerosi romanzi, molti scritti per l’infanzia, erano attesi dagli editori e dal pubblico. Scrisse oltre 40 romanzi e racconti, tradotti in varie lingue, notevoli per lo stile disinvolto, per la vena ironica, per la vivacità d’immagini, per una forza descrittiva che pone Ouida nel solco di Charles Dickens. Successivamente, l’indulgere ad un certo stile melodrammatico, di sapore ottocentesco, doveva far perdere alla scrittrice il suo bel fare dickensiano, ed insieme le simpatie del pubblico. Nonostante i forti guadagni, a causa della sua prodigalità e di un tenore di vita senza dubbio superiore alle sue effettive possibilità, contrasse molti debiti e si ridusse in miseria. Ormai cieca, gravemente malata di cuore, si era chiusa in una sdegnosa solitudine, vivendo negli ultimi anni tra Viareggio e Massarosa, dove aveva trovato alloggio nella casa di un lattaio. Pur consapevole della gravita del suo male, non credeva nelle cure dei medici, che considerava – tout court – una rovina dell’umanità. A Viareggio, dove dimorò a lungo, specialmente al tramonto della sua vita, era più nota come una signora straniera piuttosto stravagante che come scrittrice illustre. La si vedeva spesso camminare per le vie del centro, con i suoi inseparabili cani al guinzaglio, ancora diritta come un fuso – benché fosse già anziana – attenta ad adattare l’andatura al passo malsicuro dei suoi beniamini. E a proposito di questa sua predilezione per i cani – che non pochi giudicavano strana, o quanto meno eccessiva – se qualcuno le chiedeva perche non rivolgesse, ad esempio, le sue premure anche ai bambini, rispondeva candidamente che i bambini hanno le loro mamme, che normalmente provvedono ai loro bisogni. I cani invece – spiegava – sono spesso scacciati dalle case, specialmente quando vecchi, o malandati, non servono più, e c’è quindi sempre bisogno di qualche persona che s’interessi alla loro cattiva sorte. L’appassionata cinofila, la “buona samaritana” in cerca di cani randagi, che raccoglie, cura e protegge – arrivando, lei poverissima, a privarsi dello stretto necessario per sfamarli – fu anche attenta e acuta osservatrice della realtà sociale e politica che la circondava. Mai cessò in lei l’ansia di agire. Sul piano socio-politico il suo fondamentale radicalismo la portò, sovente, a schierarsi dalla parte di chi si batteva per le cause più avanzate. Non le sfuggirono le misere condizioni di vita dei contadini toscani e cercò con i suoi articoli di sensibilizzare l’opinione pubblica per migliorarle. Partecipò concretamente, ad iniziative di avanguardia, come quelle in difesa dell’ambiente, che ne fa una precorritrice dell’attuale movimento verde. Tra le altre cose attaccò con forza il servizio militare obbligatorio. Deve tuttavia essere ricordata con rispetto e gratitudine soprattutto per il suo immenso amore alla liberta e all’Italia. In difesa della liberta, non esitò – tra il 1899 e il 1900 – a prendere posizione, sulle pagine della “Revue des Deux Mondes” e nella “Nuova Antologia”, contro il governo conservatore inglese, in favore della causa dei boeri. La sua condanna della politica antipopolare del governo Crispi – caratterizzata dagli stati d’assedio e dai tribunali militari – giunse dura e puntuale. Più tardi levò, ancora una volta, la sua voce di protesta contro il generale Bava Beccaris che, nel 1898, represse con i cannoni i moti milanesi, massacrando oltre ottanta civili. Poche persone seguivano, a Viareggio, il feretro di Ouida, in quella fredda giornata del 26 gennaio 1908, e non fu notato neanche un cittadino inglese. Eppure, a quell’epoca, non pochi inglesi risiedevano a Viareggio e in Toscana. L’opinione pubblica inglese, probabilmente, non le aveva perdonato il suo forte impegno politico contro la guerra anglo-boera, ma forse anche, in patria, era ormai un personaggio dimenticato.[2]
[1] Lorenzo Viani, Incontro con la “Mamma dei cani”, racconto tratto da Il nano e la statua nera in https://territoridel900.wordpress.com/2014/06/07/lorenzo-viani-incontro-con-la-mamma-dei-cani/ Pubblicato il 7 giugno 2014 da Carlo Rossi.in G.Pasquali, L. Gierut, Donne di Viareggio e della Versilia … nel Tempo, Pezzini, Viareggio 2015)
[2] Articolo di Marco Palmerini su “Viareggio Ieri”, anno pp20-23. Cfr. anche P. Dinelli, Massarosa, pp.134-136.